Il brand (non) è morto, lunga vita al brand!


Sono giorni sospesi questi, per chi si occupa di comunicazione e marketing. La priorità è l’emergenza sanitaria che stiamo vivendo ovviamente, per la quale noi per primi possiamo fare la nostra parte, spostando in casa un lavoro che tutto sommato avviene per lo più tramite pc o in incontri ben gestibili in videoconferenza. Certo, il comparto eventi e formazione sta subendo un durissimo colpo, che incide economicamente in modo pesante anche su tutta una serie di economie collaterali; le conseguenze si stanno già facendo sentire e serviranno azioni concrete per una pronta ripresa.

Ma quello su cui vorrei qui fermarmi a riflettere è un altro fenomeno, che riguarda più direttamente i Brand. In questi giorni infatti, frenati nelle loro consuete comunicazioni quotidiane, le aziende stanno consapevolmente o meno reinventando il proprio ruolo a livello comunicativo; sta finalmente risultando chiaro e palese quello di cui tutti ormai, addetti ai lavori, parliamo da mesi: i Brand sono attori sociali importanti, fanno parte della collettività, hanno un proprio vissuto storico e valoriale che li fa percepire dalle persone come soggetti reali, dai quali ci si aspetta un contributo, anche e soprattuto in caso di grave crisi come quella che stiamo vivendo. Il famigerato purpose del brand, laddove il legame con le necessità stringenti lo richiede, emerge attraverso le azioni di solidarietà messe in campo: dalle aziende di telefonia che offrono agevolazioni e banda gratuita per le aree isolate, alle assicurazioni e banche che sospendono le quote di polizze e mutui, alle società tecnologiche che mettono a disposizione, sempre gratuitamente, i propri software per abilitare il lavoro da remoto. Ma penso anche a quelle aziende, come Esselunga o Armani, per citarne solo due, che hanno fatto donazioni agli ospedali, sottolineando il legame con il territorio e l’italianità che già contraddistingueva il loro Brand.

Attenzione, non sto dicendo che queste azioni nascano con un preciso scopo di marketing o comunicazione, no. Sono azioni di solidarietà e beneficenza che però, come tutte le azioni che si compiono, dicono molto di chi le fa e contribuiscono -volente o meno- all’immagine che noi ci facciamo di questi Brand.

E’ il famoso discorso dello storydoing, ma al contrario: non si tratta cioè di compiere delle azioni perchè coerenti o di supporto al proprio storytelling, ma semmai di fare storytelling attraverso le proprie azioni.

Ed è in questo modo che io vedo ora una importante opportunità per la comunicazione di marca: quello di ripensare le proprie logiche tradizionali e chiedersi cosa concretamente il proprio Brand è in grado, o vuole, o dovrebbe fare in questa situazione, in quanto soggetto sociale che svolge un determinato ruolo. Perchè è solo attraverso le azioni concrete che, in queste poche (speriamo) settimane che abbiamo davanti, i Brand potranno dispiegare tutta la loro forza comunicativa.

Cito solo un ultimo caso: lunedì 9 marzo Chiara Ferragni e Fedez hanno lanciato una raccolta fondi in favore dell’Ospedale San Raffaele di Milano, sfruttando quello che è uno degli aspetti che maggiormente caratterizza il loro brand Ferragnez (la campagna era proprio firmata Ferragnez), cioè la capacità di coinvolgere le persone, in questo caso per un bene comune. Ebbene, solo nelle prime 6 ore hanno superato 1.000.000 di euro di donazioni; a distanza di quasi 24 ore la cifra è ormai prossima ai 3.000.000 di euro con più di 158.000 donatori. Qualcuno ha ancora dubbi sulla capacità di engagement del loro brand?

Siamo insomma in un periodo che ci impone un passaggio dal dire al fare, o, per meglio dire, che fa del fare un modo di raccontare e raccontarsi. Approfittiamone. Come brand, come istituzioni, come individui.

 

a cura di Anna Gavazzi, Direttore Generale di OBE

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