Influencer e creator, figure sempre più centrali nelle attività di comunicazione dei brand. Figure che negli ultimi anni hanno visto crescere il loro impiego, ma ancor di più la comprensione del loro reale significato/valore da parte di aziende e professionisti, ma, in fondo, da parte degli utenti stessi.
Una scalata continua, salda anche nel 2021 e in questa prima parte del 2022, che non si riduce solo ai numeri, ma è portatrice di un’evoluzione ben più radicata, che ha segnato e segna tuttora le campagne che vedono coinvolti influencer e creator. Un cambio di pelle che trae origine nell’eredità del covid19, ma soprattutto in un più significativa competenza da parte dei player di settore.
Restando sui numeri, troviamo un mercato italiano attivo e certamente in salute, tanto che secondo una ricerca firmata UPA, il valore dell’influencer marketing in Italia tocca circa i 272 Milioni di Euro annui, cifra che sale oltre il Miliardo se consideriamo anche i progetti di branded entertainment e la crescente filiera della creator economy (corsi, merchandising, revenue dei canali, ecc.).
Una salute confermata anche dal numero di attivazioni realizzate nel 2021: i post #ad in Instagram, ovvero quelli nati in collaborazione tra influencer e brand, sono stati oltre 290 Mila, con una media mensile di circa 24 Mila pubblicazioni.
Attivazioni sempre più strategiche e pensate non più in ottica one shot, ma in un concetto di continuità. Secondo l’ultimo report Brand & Marketer 2021 dell’Osservatorio Nazionale Influencer Marketing (con 500 professionisti di settore coinvolti), il 37,3% degli intervistati dichiara di aver realizzato oltre 10 progetti con creator e influencer negli ultimi 12 mesi. Un semplice numero che però racchiude un punto chiave di questa evoluzione: l’IM non è più quella parte di brand activation sinergica a generare buzz tramite PR o realizzata per rendere più appealing il brand, ma un elemento essenziale delle strategie a medio-lungo termine in una modalità che diventa always-on, costante declinazione di ogni campagna.
Un cambio di visione che ribalta profondamente l’approccio visto in questi anni, portando a dover riflettere in modo più strategico o, meglio, più interconnesso, non pensando più a questo tipo di attivazioni come “isole”. Una campagna per avere significato non può solo fermarsi alle sole, seppur chiave, performance, ma deve essere in grado di dialogare e supportarsi reciprocamente con tutti gli altri elementi di campagna, dal media, alla comunicazione social, sino, addirittura, all’offline. Non è casuale, infatti, la crescita continua lato budget destinati all’IM, budget che per il 53% degli intervistati nel report ONIM cresceranno ulteriormente.
Per fare questo, ovvero per rendere realmente strategico l’IM, è necessario un cambio anche lato progettuale: più creatività, più conoscenza di formati e trend social (adv compresa) e la consapevolezza di non fermarsi più ad un utilizzo degli influencer come soli earned media, ma come parte di attività di maggiore complessità come, ad esempio, i branded content (utilizzati dal 54,2% degli intervistati del report ONIM).
Tra autenticità e creatività
Un’evoluzione che, come detto, risente molto dell’eredità, anche lato digital, della pandemia. L’esperienza degli utenti ha infatti subito un cambio radicale e quindi anche influencer e creator hanno dovuto adeguare i loro contenuti sulla base di due driver non certo nuovi, ma la cui percezione è radicalmente evoluta: utilità e intrattenimento. Due “opposti” per un certo verso, ma perfettamente idonei alle variate necessità di quegli utenti che si sono visti costretti a modificare profondamente il proprio modo di vivere online, ma ancor prima offline.
Autenticità che in questo caso si traduce in toni più contenuti, con un ritorno a quel racconto di sé che tanto segnava i primi blogger/influencer e che ritrova spazio (e senso) in formati come le Stories e le Live, contenuti ideali per questo tipo di racconto. Semplificando, i social tornano ad essere strumenti di dialogo e, conseguentemente, di relazione.
Se il focus per gli influencer torna ad essere da una parte l’autenticità, dall’altra c’è la rivalutata attenzione alla creatività, intesa come capacità di produrre contenuti originali e votati ad avere impatto sugli utenti, spingendoli all’interazione e, soprattutto, all’azione. Necessità che ha dato nuovo senso al termine creator, sottolineandone l’abilità di pensare e dar vita ai contenuti, abilità che diventa il reale plus da offrire agli utenti e, quindi, via preferenziale per posizionarsi. Semplificando potremmo definirlo un ritorno dal protagonismo dell’autore a quello del messaggio proposto.
L’eredità di tutto questo si traduce nell’affermazione e crescita di piattaforme creator centriche come TikTok o Twitch, così come quella di nuove forme di contenuti estremamente orientate ad offrire maggiori funzionalità creative come i Reels su Instagram o gli Shorts su YouTube.
Una polarizzazione autenticità-creatività che può apparire “atipica”, ma che in realtà affonda le proprie radici nei citati driver di utilità e di intrattenimento e che ha un unico e fondamentale punto di congiunzione: il contenuto e la sua capacità di rapportarsi con le audience per cui è stato ideato e sviluppato.
L’influenza generata dal contenuto
Un ritorno a quando il contenuto, nelle sue diverse forme, era la spinta determinante che muoveva il personal branding e il processo di posizionamento di chi comunicava online. Il contenuto era la “carta d’identità” attraverso cui gli utenti conoscevano il creator e fondavano la loro opinione su di lui, andando a formare la reputazione dello stesso. Si era ciò che si pubblicava, anche se non sempre questa era un’istantanea veritiera della realtà, ma idonea ad essere giudicati, apprezzati, seguiti. Un contratto creator-utente dipendente dalla qualità dei contenuti e dal loro essere utili, nel senso di dare risposta alle esigenze degli utenti.
Il ruolo di influencer/creator era una conseguenza diretta del contenuto: maggiore la qualità offerta, più alta la notorietà guadagnata. Un processo andato “in corto” negli ultimi anni, evidenziando limitazioni e problematiche che hanno segnato anche le collabs con i brand, portando il focus sempre più verso kpi superficiali e connessi alla mera visibilità, lasciando per strada elementi invece essenziali come la qualità dei contenuti prodotti, la brand affinity e la reputation.
Ma oggi la sola fama non basta più, ponendo influencer e creator online di fronte, nuovamente, alla necessità di proporre non solo se stessi, ma soprattutto contenuti capaci di offrire un valore aggiunto a chi li guarda e li fruisce. Un’evoluzione non adatta a tutti e che, se da un lato ha favorito chi per tutto il lockdown aveva già cominciato a focalizzarsi sui contenuti e su questi aveva cominciato un percorso di posizionamento e di relazione con la propria fanbase, dall’altro ha portato numerose crisi reputazionali su chi, come le celebrity, si è trovato per la prima volta in un terreno nuovo e pericoloso, dover comunicare e trasmettere un messaggio “vero”.
Una questione strettamente connessa anche alla competenza, elemento portante per una corretta content strategy e per dare il supporto richiesto dagli utenti durante la quarantena. Know-how che ritroviamo nelle cooking lesson, negli allenamenti e molto altro, dimostratesi fondamentali per rinsaldare non solo la visibilità dei creator, ma soprattutto il rapporto con la loro audience.
Una centralità del contenuto che costringe a riflessioni importanti anche sul concetto di contesto: non basta solo creare contenuti qualitativi, serve anche una “location” in cui il fruitore di questi contenuti possa orientarsi con facilità. Una verticalità che a tratti può apparire limitante, ma che invece è driver per valorizzare le competenze e favorire un posizionamento chiaro agli occhi dei potenziali follower.
Branded content sempre più al centro
In uno scenario in cui cresce l’importanza dell’entertainment, i branded content guadagnano maggiore peso, diventando ancora più strategici. Contenuti qualitativi capaci di raccontare in modo più profondo, più coinvolgente, marca e prodotto.
Contenuti che in molti casi, per il contesto attuale, vedono influencer e creator protagonisti di un’evoluzione da semplici contenitori (earned media) a “vero” contenuto (branded content).
Ne segue la rivalutazione del concetto di palinsesto e, conseguentemente, dei format, strumenti funzionali ai concetti di utilità, ma ancor di più di intrattenimento. Un pillar ben compreso, in particolare, da TikTok, canale che ha fatto dei format uno dei suoi elementi centrali, lavorando in un’ottica potremmo dire quasi televisiva, ma con un’eccezione decisiva: la nostra regia/produzione. Un susseguirsi di reality basati sui nostri user generated content, massimizzati da un uso sapiente della musica e del sound e dall’attività di influencer e creator, trendsetter da seguire e imitare e il cui ruolo diventa per questo cruciale.
Non è un caso se il loro mantenimento in piattaforma diventa un vero e proprio campo di battaglia tra i diversi social, perché perderli si tradurrebbe non solo con un possibile calo di utenti (la fandom/community del creator), ma ancor di più dei format stessi.
Perché questi ultimi funzionano tanto bene in TikTok? Perché portano con sé tutto il “buono” dei social media e dei reality tv, valorizzandone però l’autenticità, il coinvolgimento, soprattutto, la replicabilità, essenziale per poter innescare fenomeni virali come da tempo non se ne vedevano. Format che diventano per questi motivi d’interesse anche lato brand, mettendo a disposizione opportunità e spazi da sfruttare, grazie e soprattutto al coinvolgimento di chi conosce bene i “codici” di tutto ciò, quei creator che su questi canali sono diventati riferimento.
Una spinta al format che non è però questione di canale (TikTok), ma un approccio diffuso che le aziende devono cercare di applicare in modo diffuso, nel media parkour odierno. Web series, corti, talk show, sono solo alcuni degli esempi di questa tendenza, in un focus sempre più verticale sui branded content, contenuti che nascono per intrattenere, eliminando gran parte delle sovrastrutture commerciali che solitamente contraddistinguono la comunicazione aziendale.
Non confondiamoci però: anche questi contenuti nascono comunque per portare valore al brand e vendere, ma in modo diverso, spingendo le conversioni grazie alle relazioni che quell’intrattenimento genera. È in questo modo che si amplifica la vicinanza tra utente e brand, si trasmettono i valori e il brand purpose, si mostrano in modo più credibile (e coinvolgente) le caratteristiche di prodotto.
Una propensione per certi versi rivoluzionaria, assolutamente lontana dalle usualei dinamiche commerciali e che ha bisogno di un approccio, o meglio di una progettualità, diversa. Spazio allora non più solo ai professionisti di marketing e comunicazione, ma a registi ed autori, professionisti formati all’intrattenimento e nuovo ruolo per i brand, attenti qui a comprendere come far collimare le esigenze dell’entertainment a quelle di azienda e prodotto.
Una sfida complessa che non si tradurrà per tutti in un successo.
L’obbligo di misurare (correttamente)
Con un maggiore focus sulla qualità e su forme di progetto più evolute, diventa ancora più centrale il tema della misurazione, con metodologie e kpi utili a comprendere l’impatto di queste attività. Qualcosa, diciamolo subito, non così facile.
Le metodologie di misurazione utilizzate sul digital, vicine per canale, hanno il difetto di lasciare per strada elementi rilevanti, quelle lato tv, più
vicine invece per format, non considerano molte delle dinamiche chiave dei social. In tutto questo è quindi complesso trovare un punto d’incontro, ma certo impossibile.
Sono numerose le aziende e agenzie che si sono cimentate in questa sfida, proponendo possibili soluzioni.
Una delle più evolute è il metodo CO.BRA, sviluppato da OBE, l’Osservatorio Branded Entertainment, per misurare l’impatto dei branded content nei diversi dove questi vengono utilizzati, social compresi.
Un approccio pensato per integrare elementi quantitativi e qualitativi, offrendo un’istantanea completa di quanto generato dalla campagna.
(Ben) oltre lo streaming
Una challenge, quella dell’intrattenimento, che vede coinvolte realtà molto eterogenee e che non si ferma alle sole app di streaming. Il dominio degli smartphone e l’arrivo dei canali social anche sulle smart tv cambia lo scenario, aumentando l’interesse degli utenti verso forme di intrattenimento differenti e innescando dinamiche sino ad oggi poco valutate.
In palio c’è, per tutti, qualcosa che ha e avrà sempre più valore: il nostro tempo. Un confronto che risulta sempre più trasversale, sia in termine di mezzo che di contenuto. Non importa se first o second screen. Una competizione che potrebbe evolvere ancor di più con l’interesse verso nuove le frontiere del gaming e del metaverso, offrendo un intrattenimento “aumentato”, in grado di offrire esperienze sempre più “totalizzanti”, rendendo la nostra esperienza in questi “luoghi” format stesso.
Link: https://www.engage.it/web-marketing/branded-content-sempre-piu-al-centro-ma-come-misurarne-lefficacia.aspx
Link: https://www.engage.it/web-marketing/il-nuovo-ruolo-di-influencer-e-creator-nei-branded-content.aspx