Concluso il primo workshop dedicato al Branded Entertainment nell’ordinamento italiano

Si è tenuto giovedì 3 aprile il primo workshop dedicato alle tematiche giuridiche legate al Branded Entertainment. L’incontro ha offerto un inquadramento normativo del branded entertainment con un esame delle principali fattispecie e problematiche giuridiche. Il workshop — primo nel suo genere — ha suscitato un interessante confronto tra i principali player della filiera italiana: Rai Pubblicità, RCS Media Group, MTV Pubblicità, Magnolia, Fremantle Media, Zodiak Active, Feltrinelli La Effe, Sky Italia, De Agostini Editore, The Blog TV, Google Italia, Omnicom Media Group, ma anche investitori quali QVC, Leroy Merlin, F.lli Orsero, Illy, hanno condiviso la propria esperienza portando alla luce le tematiche più rilevanti.

Il primo ostacolo che gli attori della filiera incontrano è la mancanza di una definizione di branded entertainment giuridicamente valida. Lo sforzo del giurista è di individuare le forme entro cui far ricadere il BE. La normativa italiana non si occupa in maniera puntuale delle nuove forme commerciali, recentemente sono stati recepiti alcuni fenomeni della prassi , ma la ‘comunicazione tradizionale’ resta al centro della produzione legislativa.

Partendo dall’ assunto che per branded enterainment il giurista non intende una sollecitazione all’acquisto ma l’inserimento di un brand o di un prodotto o di un servizio in un prodotto editoriale, la normativa di riferimento è quella applicata nel caso del product placement, delle sponsorizzazioni, e delle telepromozioni. Ci sono cioè principi della disciplina che normano il product placement o la sponsorship o ancora le telepromozioni che possono essere usati strumentalmente dal giurista per forme di comunicazione diverse (native adv, branded content etc.)

Ma andiamo con ordine. Il primo assunto fondamentale è che la riconoscibilità è un principio fondante per il legislatore. La Pubblicità non può essere occulta o ingannevole, ma sempre riconoscibile e distinta dalle altre forme di comunicazione attraverso modalità grafiche, sonore etc. Con le norme sul product placement (contenute nella direttiva sui Servizi di Media Audiovisivi. c.d. “Direttiva AVMS”) che ammettono la possibilità di inserire prodotti e marchi all’interno dei programmi, il principio di riconoscibilità e separatezza (concetto presente a livello europeo dalla direttiva del’89 ‘Televisioni senza frontiere’) viene modificato, il legistatore cioè riconosce la possibilità di inserire dei prodotti all’interno dei programmi e sacrifica quindi il principio di separatezza, ma non di quello di riconoscibilità (che continua a essere garantito attraverso le informative rese all’utente all’inizio, alla fine e al rientro dai break pubblicitari).

Sostanzialmente il legislatore si trova a dover tutelare due aspetti fondamentali quando si tratta di comunicazione pubblicitaria: da una parte l’interesse del pubblico, che deve poter distinguere un messaggio pubblicitario (e quindi a fini commerciali) da un testo audiovisivo concepito come ‘prodotto culturale’ , tanto che il criterio interpretativo dettato dalla CEE sull’undue prominence impone che i prodotti inseriti nei contenuti editoriali non siano posti in indebito rilievo e che in ogni caso siano inseriti in modo coerente nel tessuto narrativo, altrimenti la comunicazione commerciale verrebbe considerata “clandestina”; dall’altro l’indipendenza dell’emittente: il ‘fornitore di servizi media audiovisivi’, non può essere influenzato dall’inserzionista pubblicitario. Nel testo unico una norma prevede che siano nulle le clausole contrattuali che prevedono la trasmissione di programmi con finalità commerciale oltre alla diffusione del messaggio pubblicitario.

Ecco che quindi la Direttiva AVMS e il decreto Romani sul product placement chiariscono gli obblighi dell’editore nei riguardi del suo telespettatore: si tratta di obblighi negativi – non ci deve essere sollecitazione all’acquisto, non deve esserci indebito rilievo, l’editore non deve essere influenzato nella messa in onda di tale programma; e obblighi positivi: il telespettatore deve essere informato dell’inserimento di prodotti a fini commerciali.

E qui un primo snodo rispetto al branded entertainment: se il programma non è stato commissionato dall’emittente, cioè se la rete acquisisce in licenza il contenuto senza commissionarne la produzione, (sistema duale) non è necessario inserire l’informativa sull’inserimento dei prodotti commerciali. Oggi alcuni broadcaster precauzionalmente la utilizzano, anche per tutelarsi da eventuali contestazioni per diffusione di messaggi pubblicitari ‘occulti’, ma il messaggio è equivoco. O applico la disciplina sui programmi autoprodotti (product placement) oppure, In assenza di un rapporto di committenza, aver adottato la stessa normativa sul product placement potrebbe porre degli “indizi gravi precisi e concordanti” per ipotizzare un collegamento tra chi diffonde il contenuto e il titolare dei diritti su un programma contenente riferimenti a marchi e/o a prodotti.

Su suggerimento del legislatore, ciascun gruppo editoriale ha adottato un codice di autoregolamentazione: così oggi alcuni gruppi editoriali propongono agli operatori programmi sponsorizzati con product placement, altri preferiscono la strada della ‘licenza’, alcuni infine la co-produzione. Ecco alcuni esempi di contrattualistica oggi corrente.

I contratti ‘tipo’

Per il legislatore la differenza tra product placement e sponsorizzazione è che con la sponsorizzazione il prodotto non fa parte della trama, ma un investitore che ‘acqusita’ product placement potrebbe anche sponsorizzare il programma, stando attenti all’indebito rilievo (l’Osservatorio sul product placement ha proposto all’Agcom di accogliere tale prassi, ma il provvedimento non è ancora stato recepito anche in attesa di approfondire la normativa sul branded entertainment). I contratti di branded entertainment che vengono ricondotti alla normativa sul product placement sono più tutelanti in relazione all’obbligo di separazione, il cui ‘sacrificio’ viene ammesso dalla legge. In questo caso gli ‘attori’ in causa sono il broadcaster o la concessionaria e l’inserzionista. Ma l’inserzionista perde la titolarità dei diritti sul contenuto, essendo formalmente un inserimento di un brand all’interno di un contenuto preesistente.

Un altro modello di contrattualistica può prevedere la concessione del contenuto in licenza dalla casa di produzione al broadcaster (e non alla concessionaria): in questo caso deve essere tutelata l’indipendenza del ‘fornitore di servizi audiovisivi’ che quindi non può essere obbligato alla messa in onda del contenuto.

In questo secondo caso, l’inserzionista che vuole fare un branded content deve necessariamente passare da una casa di produzione. Questo anche perché se l’inserzionista producesse e distribuisse autonomamente contenuti editoriali, si porrebbe un problema relativamente al suo oggetto sociale: cosa succederebbe se l’azienda decidesse di produrre contenuti non a scopo promozionale e non in relazione all’oggetto sociale? Alcuni (pochi a dire il vero) hanno costituito una società terza ad hoc ( P&G con P&G Productions per ‘Sentieri’ , Red Bull Media House etc.)

Un’altra possibile strada è quella della co-produzione: a fronte di un contributo economico c’è una ripartizione dei diritti tra inserzionista e casa di produzione che ne diventano contitolari. Questa soluzione è vista poco favorevolmente dai broadcaster perché in parte ne incrina la mission. Inoltre, la co-produzione è presa in considerazione dal decreto sulle sponsorizzazioni (D.M. 581/1993) che disciplina l’apporto dell’inserzionista che presuppone la non ingerenza del prodotto (e consente la sola menzione nei titoli di testa o di coda) vanificando di fatto le esigenze del brand che vorrebbe una presenza rilevante del proprio brand all’interno del contenuto.

E i media digitali? Se la piattaforma è configurabile come un fornitore di servizi media audiovisivi dovrà comportarsi ai sensi della normativa relativa, ma anche come provider in generale è fondamentale garantire la riconoscibilità dello spazio pubblicitario VS. lo spazio editoriale. Il digital pone anche il problema della crossmedialità delle piattaforme di fruizione. Il legislatore sembra ignorare la rivoluzione che è in corso, regolando l’attività televisiva diversamente dalle altre piattaforme di distribuzione dei contenuti, non considerando quindi la ‘fluidità’ del contenuto.

Il dibattito, molto acceso a dire il vero, ha portato all’attenzione di tutti alcuni temi irrisolti, come il tema dell’affollamento. Se, per ipotesi, non esistessero tetti di affollamento o se fossero ben più ampi di quelli esistenti la differenza, dal punto di vista normativo, tra branded content e pubblicità sarebbe risolta? Se il branded content fosse equiparato a un messaggio commerciale prodotto da un inserzionista, cosa lo differenzierebbe dallo ‘spot’ a livello giuridico? Il genere audiovisivo (gli elementi semantici di linguaggio e forma – compresa la durata) può essere un elemento discriminante nella definizione di branded entertainment? Lo storytelling è un criterio applicabile per guidare la distinzione tra comunicazione commerciale e contenuto editoriale? Un claim, un logo, che indica nella chiusura finale inequivocabilmente al consumatore l’intento commerciale del contenuto, rende quel contenuto giuridicamente assimilabile allo spot? Viceversa, produrre un contenuto e non esplicitare la propria presenza (non inserendo il prodotto o servizio all’interno della trama narrativa e quindi neanche un disclaimer) può far incorrere in sanzioni relative alla pubblicità occulta?

Ad oggi la normativa prevede che forme diverse dallo spot (non spot più lunghi, con lo stesso linguaggio, ma contenuti diversi con obiettivi e linguaggi diversi), e per loro stessa natura “more time consuming” possano beneficiare di un bacino di affollamento ulteriore (il medesimo previsto per le telepromozioni). Può il Branded Entertainment essere considerata una forma di pubblicità diversa dallo spot e rientrare nella logica delle forme di pubblicità c.d. more time consuming?

Certo, cosi come per le telepromozioni, si dovrebbe tenere conto degli elementi che caratterizzano — e differenziano- il branded entertainment dalle altre forme di comunicazione commerciale: la rilevanza e la qualità percepita dal pubblico (vedi a questo proposito i risultati della prima ricerca in Italia che ha permesso di ricostruire e analizzare la percezione del fenomeno del BRANDED ENTERTAINMENT da parte del consumatore-spettore LINK)

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